Giuseppe Vermiglio: un pittore nella Milano della Controriforma
Laura Paola Gnaccolini
Giuseppe Vermiglio è un artista di grande qualità e interesse riscoperto dalla critica, dopo un’intuizione iniziale di Longhi, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo. Di origine con ogni probabilità milanese, ha una formazione tutta romana, a partire dal 1604, nell’ambiente del Cavalier d’Arpino e di Caravaggio (che con ogni probabilità dovette conoscere personalmente e di cui sembra condividere negli anni giovanili il carattere impulsivo e violento). Non abbiamo opere di questa fase iniziale, che lo vede in bottega presso un pittore perugino ben introdotto nell’ambito del mercato dell’arte, ma nella prima commissione pubblica del 1612, l’Incredulità di San Tommaso commissionata dal parroco della chiesa di San Tommaso dei Cenci (di origine ligure) mostra un’attenta riflessione sulla poetica caravaggesca e lo studio dei lumi, oltre all’attenzione al naturale nei volti e una possibile riflessione anche su opere di altri artisti della cerchia caravaggesca, come Orazio Borgianni.
A Roma si trattiene almeno fino al 1619, per poi rientrare a Milano dove sposa, nel 1621, la figlia quindicenne di un notaio. Dall’analisi dei suoi dipinti più famosi, che la critica tende a scalare tra la fine del periodo romano e l’inizio del periodo milanese, si evince la conoscenza di diversi celeberrimi capolavori caravaggeschi realizzati per committenti privati (come il Sacrificio di Isacco per Maffeo Barberini, l’Incoronazione di spine per il marchese Vincenzo Giustiniani, Davide con la testa di Golia e il San Giovanni Battista della collezione Borghese, la Cattura di Cristo di collezione Mattei) e quindi una sua consuetudine con questi collezionisti. Egli si presenta quindi come uno dei più precoci ed interessanti divulgatori del linguaggio caravaggesco nell’Italia settentrionale.
Al rientro in Lombardia sembra alternare la produzione per i privati a opere importanti ordini religiosi, in particolare i Canonici lateranensi e i Certosini. Datano 1622 le due grandi tele oggi conservate a Brera e all’Arcivescovado, provenienti dalla chiesa dei Canonici Regolari Lateranensi di S. Maria delle Grazie a Novara, raffiguranti la Natività e adorazione dei pastori, dove l’interesse per lo studio del lume di notte si mescola con suggestioni emiliane, e l’Ultima cena, dove la critica ha notato una ripresa da modelli gaudenziani, che porta l’artista a rileggere il tema leonardesco con un linguaggio rinnovato da un notevole realismo e ricchi impasti pittorici. Tra 1625 e 1626 partecipa al rinnovamento decorativo della chiesa di S. Maria della Passione con le Esequie di S. Tommaso Beckett e Daniele nella fossa dei leoni. Nel 1627 realizza una grande pala con San Bruno in estasi per la Certosa di Pavia, con un linguaggio “normalizzato” secondo i più rigidi dettami della Controriforma.
Nella sua produzione continuano a ritornare stilemi caravaggeschi filtrati però da un maggiore classicismo, che potrebbe derivargli dalla conoscenza della pittura bolognese (in particolare Guido Reni), elementi che si rafforzano nelle commissioni dei tardi anni Venti, come la pala dei Tre Santi oggi a Menaggio, per arrivare ad un linguaggio di grande chiarezza formale e minore drammaticità.
Lo studio dal naturale che ricorre nei suoi dipinti è alla base anche della bella serie di 10 Apostoli giunta al Museo di Sant’Eustorgio per donazione Giovanni Battista Marone. Di un formato ridotto rispetto al famoso San Giacomo minore della Pinacoteca di Chiari e stilisticamente confrontabili con altri Apostoli singoli, variamente comparsi sul mercato antiquario (talvolta di dimensioni leggermente diverse, a testimonianza dell’esistenza di più di una serie), questi di Sant’Eustorgio risultano, dopo il recente restauro, di piena autografia e potrebbero forse provenire dal ciclo che ornava la cappella del Carmine nella chiesa di S. Giovanni in Conca, ricordato da Carlo Torre nel 1674.
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